VITA DI GESU’/ Il documento che descrive un miracolo raccontato da un testimone oculare

VITA DI GESU’/ Il documento che descrive un miracolo raccontato da un testimone oculare

Secondo Ignazio Perrucci, uno storico ed archivista che lavoro per gli immensi archivi vaticani, con il compito di analizzare e classificare circa 6mila documenti da poco scoperti in quell’archivio, potrebbe trattarsi di un documento eccezionale. Si tratta di uno scritto dello storico dell’antica Roma Marco Velleio Patercolo che conterrebbe la prima testimonianza oculare di un miracolo di Gesù non descritta da uno degli evangelisti, la resurrezione di un bambino nato morto. Patercolo è uno storico romano vissuto all’epoca dell’imperatore Tiberio e morto si presume intorno al 31 dopo Cristo, la cui opera da molti è stata criticata per essere troppo omaggiante nei confronti dello stesso Tiberio.
Proprio poco prima della sua presunta morte, lo storico era tornato da un viaggio in medio oriente che racconta in questo documento. Ma soprattutto quello che ha attirato Perrucci è la descrizione di un evento che ebbe luogo nella città di Sebastia negli attuali territori palestinesi cosiddetti del West Bank.
Patercolo descrive l’arrivo in città di un leader con un gruppo di discepoli e seguaci che fece accorrere sul luogo molti abitanti delle zone vicine. Il nome di costui, come si legge, è Iesous de Nazarenus, la traduzione greco latina del nome ebraico di Gesù, Yeshua haNotzri. Nel racconto si legge che Gesù va a visitare una donna di nome Elisheba che ha messo alla luce un bambino nato morto. Patercolo, che assiste a tutta la scena, dice che Gesù prese il bambino, recitò una preghiera definita “incomprensibile” e riportò quasi immediatamente alla vita il bimbo. Il documento è stato sottoposto  a molti esami e sembra essere proprio del primo secolo dopo Cristo, tra il 20 e il 45 dopo Cristo. Insomma, a parte i vangeli, questa sarebbe la prima documentazione scritta storica da parte di qualcuno che non era un autore dei vangeli stessi, e neppure un ebreo, di un miracolo di Gesù e della sua stessa esistenza.

Ibrida e flessibile, ecco la Bibbia secondo gli italiani

Ibrida e flessibile, ecco la Bibbia secondo gli italiani

Otto su dieci dicono di possederne una copia. Due su tre dicono di averla letta. Tra nuovi media e visioni non dogmatiche i risultati di un’indagine sul Libro dei libri

È un rapporto “singolare” quello fra gli italiani e la Bibbia. Intenso e distaccato, ma anche frequente e intermittente, competente e lacunoso, identificato e lontano, diviso e condiviso: al tempo stesso. Perché la Bibbia costituisce un elemento di comunione e, ancora, distinzione. Dal punto di vista religioso, ma al tempo stesso culturale e sociale.
La ricerca condotta da Demos & Pi (Luigi Ceccarini, Martina Di Pierdomenico e Ludovico Gardani) per conto di Edb, sottolinea questo tratto singolare e, al contempo, ambivalente, della Bibbia. In un Paese dove si legge poco, dove il libro è, ancora, un “bene pregiato”, sicuramente raro, è presente dovunque. In (quasi) tutte le famiglie. In (quasi) tutte le case. Oltre otto persone su dieci affermano di possedere in famiglia (almeno) una copia di questa “piccola biblioteca nata nel corso di un millennio” (per usare le parole di papa Benedetto XVI). Naturalmente, possedere una copia della Bibbia, non significa leggerla, né tantomeno conoscerla. Circa due italiani su tre dicono di averla letta. In misura quasi eguale: in passato ma anche più di recente. Circa sette persone su dieci, cioè, sostengono di averla consultata, letta o, almeno, di averne sentito recitare (oppure citare) una pagina o un verso nell’ultimo anno.

È, dunque, un’opera nota, approcciata di frequente. Come nessun altro libro nella storia personale e sociale degli italiani. Perché nessun altro libro è in grado di marcare, nella stessa misura, l’identità personale e sociale degli italiani – e non solo. La Bibbia, l’Antico e il Nuovo Testamento: costituisce un riferimento comune, “sacro”, per gran parte dei cristiani. E non solo. Per gran parte dei cattolici. E non solo. È questa pluralità di significati che distingue la Bibbia da altri libri. Questa capacità di unire e dividere. La sua forza simbolica, oltre che pratica. Chi crede, i cattolici e i cristiani, l’hanno sentita – e continuano a sentirla – (re)citare nei luoghi di culto. Nelle cerimonie religiose. A messasoprattutto. Ma non solo. Perché i versi e le parole della Bibbia risuonano, con frequenza, sui media. In televisione oppure alla radio. Per questo è un’opera singolare. Perché è pervasiva e, al tempo stesso, specifica. Perché sta sullo sfondo, ma è, comunque, un segno. È dovunque, echeggia dovunque. Ma caratterizza e definisce uno scenario. Il “mondo cattolico”, secondo la larga maggioranza degli italiani. Anche se, lo sappiamo bene, la Bibbia non è patrimonio esclusivo dei cattolici, ma dei cristiani, in generale. E, per quel che riguarda l’Antico Testamento, anche degli ebrei. È, cioè, il Libro, la Biblioteca della civiltà ebraico-cristiana. In senso più ampio: della civiltà occidentale.

Non per caso, circa tre su quattro, fra i non credenti e i non praticanti, ne possiedono una copia. E, tra loro, oltre due su dieci l’hanno letta. La stessa misura di chi, fra i credenti e i praticanti, afferma di non averla letta. Allo stesso modo, l’orientamento politico conta in modo limitato, fra chi possiede e legge la Bibbia. Da destra a sinistra: non si rilevano grandi differenze.

La Bibbia, è, dunque, percepita e utilizzata da gran parte degli italiani in modo, perlopiù, non letterale. Tanto menodogmatico“. D’altronde, il grado di competenza biblica che emerge dalla ricerca è ampio, ma non generalizzato. E riflette, in misura maggiore, il livello di istruzione, di attenzione ai temi della cultura e delle religioni, piuttosto che l’appartenenza ecclesiale. Tuttavia la Bibbia è, al tempo stesso, un testo multimediale, come sottolinea la molteplicità dei canali attraverso cui è comunicato. Dalla messa alla famigliadalla lettura ai mass mediafino a internet (medianteapposite app). D’altronde, i personaggi e le “storie” della Bibbia hanno ispirato la “storia” dell’arte. La pittura, la scultura, la narrazione, la cinematografia: attraverso i secoli.

Per questo, ancora e – tanto più – oggi, è, sicuramente, in grado di essere trasmessa e riproposta attraverso linguaggi diversi. Per lo stile e per la “parola” che la caratterizzano. Come ha sottolineato, con particolare efficacia, il cardinale Gianfranco Ravasi: “Cristo per comunicare ha già usato la televisione e i tweet. Come? Con sceneggiature vere e proprie, tipo quella del figlio prodigo “che fugge, mangia coi porci, se la gode con le prostitute, poi torna”. E con immagini folgoranti, capaci di entrare perfettamente nei canonici 140 caratteri”. Da ciò la “singolarità” e, al tempo stesso, la grande “accessibilità” della Bibbia. È un testo, una somma e un insieme di testi, che si confondono con la realtà sociale e con la vita quotidiana. Ma che – questa è la loro singolarità – definiscono e “specificano” la nostra civiltà.

Così, la Bibbia diventa il marchio di un’appartenenza di fede definita e, al tempo stesso, di una cultura più ampia. A livello territoriale e sociale. Il segno di un’identità “divisa” ma anche “con-divisa”. Per questo è dovunque. Per questo, spesso, sta sullo sfondo, nascosta, quasi invisibile. Ma, talora, appare e riappare. In modo evidente. Soprattutto in questi tempi, per reazione al confronto con altre religioni, “esibite”, anche nel nostro mondo, da persone immigrate, sempre più numerose. Ma, anche per rispondere alla minaccia, forse più insidiosa, prodotta dalla “secolarizzazione”, veicolata dal consumismo globale.

Anche per questa ragione, la dimensione comunicativa, aperta, plurale della “biblioteca biblica” ha largamente superato, oserei dire, assorbito quella religiosa. Il “distintivo cristiano”, per citare una formula cara al filosofo Romano Guardini, è divenuto un distintivo “nazionale”. AnzieuropeoOccidentale. Per marcare il proprio specifico culturale al tempo della “mondializzazione”. Da ciò il carattere universale della Bibbia, sottolineato da questa indagine. Che ne riflette la capacità di innovarsi e di riprodursi di continuo. Da ciò, però, anche un rischio. Anzi, “il” rischio. Che tanta flessibilità, finisca per ridurne la capacità di generare riconoscimento. Che l’eccedenza plastica della Bibbia, che tutti possiedono, tutti frequentano e tutti incontrano, attraverso i media più diversi, al di là di ogni confine di fede e credenza, ne possa ridimensionare, se non neutralizzare, la forza distintiva. Ma la Bibbia, come abbiamo visto, è “geneticamente ibrida”. Condivisa da religioni diverse. Evoluta nel corso del tempo. Così, può costituire un importante veicolo di “comunicazione”. Perché viviamo tempi ibridi, dove è utile, anzi, necessario, diventare ibridi, per affrontare e governare i cambiamenti. A condizione, però, di riuscire a comprendere e a far comprendere chi siamoAgli altri. E a noi stessi. A condizione, dunque, che questa “Bibbia diffusa”, fra gli italiani, non indichi – e riproduca – una religiosità invisibile. Prêt-à-porter. Che crea il nostro “Dio personale”. Ma non può promuovere un territorio comune e comunitario. Né valori universali. Al massimo, una rete di “individui individualisti” e, in fondo, soli.

(Questo articolo è un estratto della prefazione del libro Gli italiani e la Bibbia. Un’indagine di Luigi Ceccarini, Martina Di Pierdomenico e Ludovico Gardani)

Gli italiani e la Bibbia
di Ilvo Diamanti
Edbpagg. 135, euro 10

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